Martedì 4 settembre 2012 alle 21.10 su Rai 1 ultimo imperdibile appuntamento con la decima puntata stagionale di “SuperQuark”, il programma di approfondimento scientifico condotto da Piero Angela.
In questa ultima puntata, che andrà in onda eccezionalmente di martedì, assisteremo a un incredibile documentario Ushuaia Nature che ci porterà nell’affascinante e gigantesco universo delle caverne degli abissi, in un mondo in sono ospitate, letteralmente e concretamente, vere e proprie pietre preziose.
In Messico, nello stato di Chihuahua, in profondità nella miniera di Naica, esiste una delle meraviglie sotterranee più incredibili che la Terra abbia mai creato: la Cueva de los Cristales (la grotta dei cristalli) situata a 300 metri di profondità. Una caverna totalmente ricoperta di cristalli bianchi di selenite, splendidi giganti che in alcuni casi superano i 10 metri di lunghezza; i cristalli più grandi del mondo.
L’altissima temperatura e umidità della grotta permettono di restare al suo interno solo per un tempo massimo di 30 minuti e solo utilizzando delle speciali tute protettive dotate di respiratori , studiate appositamente per questi luoghi al cui interno il corpo umano non riuscirebbe a resistere per più di 8 minuti.
Nicolas Hulot e la sua equipe percorreranno il Messico, Panama, la Repubblica Domenicana, fino ad approdare nella perduta isola di Malpelo, nel paese dell’Eldorado, per andare incontro alle creature delle tenebre oceaniche.
Nel servizio di Marco Visalberghi e Barbara Bernardini verremo trasportati nel Laboratorio di Psicofisiologia del sonno dell’Università la Sapienza dove si studi una cura per l’insonnia attraverso la neuro stimolazione. Gli esperti ritengono che applicando degli elettrodi in alcune zone specifiche del cranio e tramite una piccolissima e impercettibile corrente elettrica, che crea una azione inibitoria o eccitatoria sui circuiti cerebrali, sia possibile modulare la capacità di addormentarsi. Addormentarsi con un click.
Secondo le statistiche un individuo su tre ha difficoltà ad addormentarsi, infatti i disturbi del sonno colpiscono, in modo più o meno grave, un terzo della popolazione mondiale.
Nonostante le case farmaceutiche sconsiglino l’uso dei sonniferi per più di tre o quattro settimane consecutive, milioni di persone sulla Terra continuano a utilizzarli in maniera a volte cronica. Ma con il passare delle settimane l’effetto sull’organismo perde di efficacia, richiedendo sempre dosi maggiori e creando così un meccanismo di dipendenza.
Nonostante ingenti investimenti ancora oggi non si è in grado di produrre il principio attivo capace di risolvere il problema dell’insonnia cronica, perché il nostro cervello è protetto da tutto quello che lo circonda, un filtro chiamato barriera emato-encefalica, molto sottile ma molto efficace nel permettere il passaggio di molecole di dimensioni estremamente piccole, rappresentando una enorme difesa da batteri e virus che aggrediscono il cervello, ma questo è anche una difesa nei confronti dei farmaci.
Una difficoltà oggettiva che ha fatto decidere a Luigi De Gennaro e Paolo Maria Rossini di affrontare l’insonnia da un altro punto di vista. Quello elettrico.
Essendo il cervello composta da di reti neuronali composte da milioni di cellule che comunicano tra loro tramite reazioni chimiche e impulsi elettrici, De Gennaro e Rossini si sono detti: perché non intervenire sul cervello con stimoli elettrici anziché con i farmaci che tanto faticano a superare il filtro encefalico?
La stimolazione elettrica o elettromagnetica delle aree cerebrali, differentemente dai farmaci, arriva direttamente ai circuiti cerebrali, senza alcuna barriera.
Ma quale è la rete neuronale che va stimolata e quale quella che va rallentata? E soprattutto quale è la lunghezza d’onda che può permetterci di scatenare i sonno?
Bisogna in sostanza riuscire a trovare la “chiave” d’ingresso nelle reti neuronali che controllano il sonno, in modo da potenziare i circuiti che inducono il rilassamento, inibendo quelli che controllano la veglia.
Nel servizio di Lorenzo Pinna e Francesca Marcelli andremo nello spazio, dove ormai si trovano milioni di rifiuti di metallo, di varia grandezza, che orbitano intorno alla Terra e che viaggiano a una velocità altissima di oltre 20.000 chilometri l’ora, diventando così veri e propri proiettili micidiali e molto pericolosi che creano allarme a tutti gli enti spaziali.
Tra le iniziative per ridurre il rischio della spazzatura spaziale ce n’è uno tutto italiano e molto originale, attualmente in fase di sperimentazione. Dopo il servizio torneremo in studio con un esperimento di Paco Lanciano.
Nell’orbita intorno alla Terra viaggia a grandissima velocità ogni genere di rifiuto, dai satelliti ormai spenti agli ultimi stadi dei razzi, dai frammenti di esplosioni agli arnesi persi dagli astronauti. Una specie di mantello che avvolge la Terra a diverse altitudini, con un addensamento maggiore nella cosiddetta orbita bassa fra i 400 e i 2000 chilometri e quella geostazionaria a 36.000 chilometri, seguito costantemente dai radar e dai telescopi sia del Norad, il comando della difesa aereospaziale americano, sia dall’ESA, l ‘agenzia spaziale europea.
Una rete mondiale che collega i centri di avvistamento e cataloga i rifiuti calcolandone le orbite fin dagli anni ’60, lanciando l’allarme quando c’è una possibilità di collisione. La densità ormai raggiunta dai rifiuti ha fatto capire che il problema potrebbe aver superato il livello di guardia, un rischio che fa temere, nelle orbite più inquinate, l’innesco di una reazione a catena con una serie infinita di scontri che non permetta più di praticare quella zona.
Tra le idee per ridurre la massiccia quantità di rifiuti, prima tra tutte alcune regole per non crearne di nuovi, come la possibilità per i satelliti di rientrare e disintegrarsi alla fine del ciclo di vita, oppure un’orbita cimitero dove non daranno fastidio per i satelliti spenti.
Tra le idee c’è quella facoltà di ingegneria dell’Università di Forlì dove un gruppo di studenti ha messo a punto un sistema per aumentare la frenata dei rifiuti: una speciale schiuma che attaccandosi al frammento funziona come un paracadute e ne rallenta la corsa. Un’idea piaciuta anche all’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, che ha messo incluso l’esperimento degli studenti di Forlì nel suo programma.
Nel servizio di Lorenzo Pinna e Gianmarco Mori scopriremo dove vanno a finire oli usati e batterie esaurite. Materiali molto inquinanti che se lasciate in giro avvelenerebbero i terreni e le acque; il riciclaggio di oli e batterie rappresenta uno dei modi più efficaci e intelligenti di gestire un problema ambientale guadagnandoci sopra.
La produzione annuale di prodotti pericolosi dalle nostre amate automobili è ogni anno straordinaria. Le batterie esaurite, con il loro contenuto di piombo e acido solforico e l’olio motore possono causare danni irreparabili se finissero nei fiumi , in mare o nelle fogne. Un solo litro di olio esausto può inquinare un milione di litri di acqua pulita.
In Italia niente di tutto questo è successo, facendo del riciclaggio di questi due prodotti un successo per il nostro Paese, nel servizio vedremo come si è riusciti in questo, grazie al contributo che tutti noi paghiamo e alla responsabilità del produttore di farsi carico del loro recupero.
Un viaggio che inizia dal Cobat, uno dei consorzi più grandi e più “antichi”. Il Cobat è stato istituito nel 1988 e la sua attività è cominciata nel 1991 che permette ad ogni officina, garage o stazione di servizio deve raccogliere le batterie esaurite in speciali contenitori, a tenuta stagna, per evitare perdite di acido. Una rete di raccolta capillare che copre tutta l’Italia, della quale fanno parte 90 aziende di raccolta che servono oltre 60.000 produttori di rifiuto, e che ha il compito di recuperare queste batterie utilizzando mezzi di raccolta speciali, sempre a tenuta stagna, per evitare contaminazioni.
Dopo varie tappe le batterie finiscono poi nei grandi impianti, come quello di Paderno Dugnano dove vengono riciclate. Una visita che ci farà scoprire il destino delle batterie che per circa 5 anni ci hanno fatto viaggiare comodamente sulle quattro ruote.
Con una rete analoga il Couu, cioè il consorzio che riunisce le imprese produttrici dal lontano 1984, recupera gli olii esausti in officine, stazioni di servizio, garage. Prima di essere lavorati questi liquidi pericolosi vengono analizzati nei laboratori e così possiamo renderci conto quale sia il loro aspetto prima del trattamento. In cosa si trasforma l’olio esausto alla fine di questi complicati processi di raffinazione, dopo aver attraversato tubi, torri, scambiatori, temperature di centinaia di gradi, il vuoto e pressioni di oltre 100 atmosfere?
Nel servizio di Barbara Gallavotti e Giulia De Francovich vedremo come molti farmaci, oggi utilizzati per malattie gravi, pregiudichino la fertilità delle giovani donne. Ora però è possibile asportare, conservare e quindi reimpiantare il tessuto ovarico, in grado di creare una nuova vita. Una tecnica sperimentata in poche decine di pazienti ma che ha dato risultati molto incoraggianti.
La piccola Aurora ha solo pochi mesi ma ha già fatto qualcosa di molto importante: ha dato la speranza a molte giovani donne di una vita normale. La sua mamma Rosanna, ad appena 21 anni ha dovuto assumere farmaci per una grave forma d’anemia che avrebbero potuto danneggiare le cellule preposte alla fertilità per sempre. Una eventualità scongiurata nella Clinica Universitaria di Ginecologia ed Ostetricia dell’ospedale Sant’Anna di Torino, grazie ad una serie di interventi eseguiti dall’équipe della professoressa Chiara Benedetto che hanno asportato, conservato e quindi reimpiantato il tessuto ovarico, cioè il tessuto che contiene gli ovociti: le cellule che fondendosi con uno spermatozoo possono dare origine a una nuova vita.
Rosanna ha dovuto combattere una durissima battaglia contro una malattia rara, con il rischio di diventare sterile come conseguenza alle cure “salvavita”, ma da alcuni anni l’obbiettivo è quello di garantire a queste giovani pazienti la possibilità di un futuro normale, evitando che le terapie che salvano la vita mettano a rischio la fertilità”.
Il congelamento del tessuto ovarico, cominciato a sperimentare solo nella seconda metà degli anni ’90, deve essere programmato prima dell’inizio delle cure che possono danneggiare la fertilità, prelevando dalle ovaie sottili strisce di tessuto che contengono gli ovociti e altre cellule essenziali per la loro sopravvivenza.
Le strisce poi vengono ridotte in piccoli frammenti e portate a temperature bassissime, processo che le disidrata, grazie all’uso di soluzioni contenenti diverse molecole, fra le quali il saccarosio, una disidratazione essenziale per garantire una buona conservazione del tessuto. Mentre la paziente viene curata, i suoi ovociti sono al sicuro, protetti in questo contenitore a una temperatura di -196 gradi centigradi.
Non appena la paziente sarà guarita, se lo decide, le strisce di tessuto vengono reimpiantate. Può avvenire anche a molti anni di distanza. Il tessuto, ha buone probabilità di riattecchire e di ricominciare a funzionare regolarmente, ubbidendo al ciclo ormonale.
La piccola Aurora e la sua mamma sono testimoni di un passo importante della medicina; una vittoria non solo contro le malattie, ma anche contro le loro conseguenze.
Alberto Angela si è recato nei sotterranei di Palazzo Valentini per svelare una Roma nascosta; dove resti di antiche domus, raccontano della vita dei ricchi patrizi e di un terremoto dell’antichità.
Per la rubrica “La Scienza in Cucina” la dottoressa Elisabetta Bernardi parlerà del sale: eliminare la saliera dalla tavola fa sicuramente bene.
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